giovedì 23 febbraio 2012

Gabriel Del Sarto - "Sul vuoto", Transeuropa, 2011

di Marco Bini



Il vuoto è la figura dello spavento, ma anche, se volessimo cambiare punto di vista, è la figura del sollievo. Nulla di cui preoccuparci, nulla di cui darci pensiero. Niente, vuoto e basta.

Eppure, se il vuoto è stato per secoli nel pensiero occidentale un sinonimo di impossibile – prima della smentita empirica del principio dell'horror vacui –, viene il sospetto che forse davvero le cose si muovano sottotraccia come a colmare ogni possibile luogo a rischio... di vuoto.

Gabriel Del Sarto sceglie il titolo Sul vuoto per il suo ultimo lavoro uscito da Transeuropa – e vale la pena di chiedersi sulla soglia se ci troviamo di fronte ad un trattato "a proposito di" o in bilico su un nulla che terrorizza. Un libro di poesie che si presenta in un apparente abito cerebrale, per aprirsi poi in una moltitudine di dati sensoriali sottili, odori, sensazioni tattili, colori. Ecco, i colori. Ce ne sono parecchi in Sul vuoto, molti più di quanti ce ne potremmo aspettare da un titolo del genere: il grigio del cemento e dell'asfalto è un motivo dominante, ma certi verdi e azzurri di acqua e cielo non passano inosservati.

Libro crepuscolare – meglio, di crepuscoli – e notturno quello di Del Sarto, e non solo perché tante delle poesie sono ambientate in momenti che seguono il tramonto, ma anche per una certa aria di ritorno ansioso a casa, il luogo dove le monadi sganciate nel vuoto ritrovano una parziale, momentanea unità, specie a contatto con gli affetti. Se in apertura del volume troviamo una citazione emersoniana sull'esistenza della biografia contro l'inesistenza della storia, Sul vuoto è effettivamente la messa in versi di una biografia minima e sensibile, sempre discreta nell'evitare l'autocelebrazione quanto aperta alle domande sul proprio esistere.

Si tratta di un viaggio «estremamente concreto [...] la narrazione di un’esperienza simile a quella che molti, fra coloro che vivono nelle aree urbanizzate del mondo, fanno: ci muoviamo dentro folle come in un flusso, aspiriamo a spicchi di vita sensata, gesti che abbiano un nome. Cerchiamo consolazioni: religioni, amori, idee, oppure conflitti e violenza[1]», come affermato dall'autore in un'intervista. Un viaggio che, come in ogni romanzo o film di strada, si scandisce attraverso epifanie; un viaggio fino in fondo alla notte, per parafrasare un celebre titolo, una notte attraversata tutta d'un fiato, passando nelle periferie urbane così spesso utilizzate come materiale artistico, ma raramente così "osservate", un viaggio che riconcilia con la grazia dell'esistere, dell'esserci come autorivelazione, come respiro finalmente abbastanza profondo da riempire per bene i polmoni. Un esistere e un esserci che non nega gli oggetti di una quotidianità fatta di consumi e cose fatte per occupare le mani, ma che via via seleziona e destruttura questi oggetti, inserendo nel proprio habitat finalmente arieggiato e di nuovo in grado di ricevere la luce, solo ciò che è necessario. Perché è proprio la luce, quella luce dapprima fioca ed elettrica ben esemplificata dalle finestre che punteggiano la altrimenti scurissima immagine di copertina, ciò di cui si va in cerca, ciò che si intuisce al fondo del passaggio sin dal principio del libro; è la luce che benedice di nuovo le esistenze con la carica vitale che sa donare, è la luce che restituisce un assaggio di splendore anche alle più chiuse delle abitazioni e delle interiorità. È la luce che riempie il vuoto e rimette in moto la materia, che quel vuoto va a rimepire.



[1] Intervista apparsa sul sito www.pordenonelegge.it

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